«456». SPUTO!

Di Veronica Meddi

Al Teatro Vascello fino al 3 marzo «456» scritto e diretto da Mattia Torre con Massimo De Lorenzo (il padre, Ovidio), Carlo De Ruggieri (il figlio, Ginesio), Cristina Pellegrino (la moglie-madre) e con Giordano Agrusta (l’ospite atteso da tempo).

Si sta dentro perché fuori c’è un vento forte che, se poi si vive nel bacino del Mediterraneo quel vento, è libeccio, e le sue raffiche sono violentissime, meglio restare in casa.
Si sta dentro perché fuori è difficile farsi capire, sembra che tutti parlino una loro lingua personale incomprensibile, invece in casa ci si intuisce, ci si capisce e ci si può misurare bene con quello con cui si è d’accordo e quello che invece no.
Dentro, in casa, preghiere e bestemmie, ninne nanna e sputi, sono all’ordine del giorno, c’è un costante filo elettrico su cui scorre amore e rancore, odio, anche, ma mai indifferenza.

È questa la storia di una famiglia unica, meravigliosamente arrabbiata in cui ciò che più agita è la mancanza del sapere, l’ignoranza è la bellezza assoluta perché squilibrata e vera. Maschere queste che non sono maschere. 
Un padre padrone, una moglie succube ma a tratti isterica, un figlio senza un domani, vivono in un posto del Sud Italia che sembra abbandonato da Dio.
Sono feroci, i tre, e come tre bestie ringhiano nel loro arroventatissimo focolare domestico, l’attrazione magnetica che li costringe in questo ‘dentro’ sconquassato non concederà loro una fuga mai. 
L’attrazione e la repulsione vibrano costantemente per tutti gli 80 minuti di spettacolo – ma anche dopo, anche fuori dal teatro continuano a vibrare -, e assistere a questo straordinario delirio ammazza tutte le patologie da stress. Sicuro!

Insomma, magnetica la casa, magnetica la storia creata da quel genio di Mattia Torre - con la quale, credo, come ogni bravo scrittore fa, vince e supera la morte -, magnetici i personaggi, magnetica la verità a tratti paradossale e dunque divertente da morire – attenzione, non è un gioco di parole -.
Nessuno sa niente dei fatti della vita - come si impileranno uno dopo l’altro, uno sull’altro, uno al posto di un altro -, e questi personaggi men che mai pur muovendosi in una routine asfittica e nevrotica, il pubblico stesso si scoprirà a ridere a crepapelle nei momenti, nelle battute e nelle azioni, più impensate. 

Mattia Torre ci ha fatto un grande regalo, insieme tutti, ridere della morte. 

L’affascinazione con cui Torre in quest’opera seduce è la certezza che, quando si ride, si respira e si aspira, e ci si sente bene a pieni polmoni fino alle lacrime.
 
E poi, l’altra brillante esca lanciata al pubblico è la sfida di capire - e se è possibile anticipare addirittura - tanta è la sete di voler stare bene, fregandolo con questi componenti di una famiglia extra-ordinaria fuori da tutti i codici comunicativi razionali.    
 
Al centro del palcoscenico esiste uno spazio quadrato che è la cucina – un ring -, che è il salone – un ring -, che è la casa – un ring - in cui il quotidiano procede senza troppi cambiamenti, e che è, il Ring su cui entrano per combattere, un uomo, una donna, un ragazzo di 19 anni che ne dimostra di più.

Un tavolo di legno su cui è sospeso un filo di Damocle con tanto di «salama» appesa che viene gestito poi – in vari lanci e variabili energie - dai personaggi a ritmo delle esplosioni dei loro sfoghi.

Un cucù appeso in alto scandisce il tempo, il tempo che non ha pensiero e non ascolta i sogni, un cucù che dice la sua quando, secondo le lancette, è il momento, ignaro del fattore d’ansia che innesca, e senza alcun coinvolgimento emotivo (e certo, un orologio, se funziona, fa solo quello per cui è stato costruito).
Meglio lanciargli qualcosa contro, se non per fermarlo, quanto meno per farlo tacere. 
C’è un’aria nevrotica per un domani che non accenna minimamente a una via d’uscita, una speranza pensabile.

Il figlio per una possibilità di fuga, unto da scaramantiche preghiere, ha fatto il fioretto di smettere di fumare. Si china sull’inginocchiatoio – di legno, scomodo – unisce le mani in preghiera ma il nervoso lo riporta al suo unico, piccolo, momentaneo bisogno, «Voglio fumare!», o sennò «Muorimi, Dio!».
Il pubblico a questo punto deve arrendersi, la qualità altissima di Torre, De Lorenzo, De Ruggieri, Pellegrino, crea un’opera che, se fossi un medico, darei da assumere almeno una volta all’anno, e se si è gravi, anche di più. 

«456», e già nel titolo è insito tutto il ritmo che la drammaturgia richiede, - come i ballerini con il loro ‘e 5 e 6 e 7 e 8’ prima di coreografare un’emozione – tutto qui è perfettamente a tempo.

Dialoghi incomprensibili scorrono come un fiume in piena tra gli argini di calma piatta.

La mamma, a modo suo, umano più che mai, cerca di tranquillizzare il figlio rassicurandolo che «domani passa il vento» e dondola tra le braccia il figlio con una ninna nanna. 

Il «ghiru» va cucinato piccantino. «A morte la forestale!».

Il marito è infuriato con la moglie perché ha messo un vaso nella lavatrice che si è poi rotta.

«È vero?»
«Sì»
«Taci!»


È stata offerta la possibilità al ragazzo di andare a Roma dal cugino e lavorare «into ‘o sito», ma Roma per suo papà è pericolosa, è piena di batteri, «questo è un mondo pericoloso, figlio!» e se il cugino ha il sito, per il papà significa che «è ricchiune», non c’è ombra di dubbi.

Il padre è contrariato e contro i cambiamenti ed ecco che gli porta la meravigliosa metafora dello «scolapensi» che, se viene spostato, perde la sua funzione, insomma, «fa una brutta fine ‘o scolapensi», meglio lasciare le cose così come stanno.

Sono tre meravigliosi individui soli e isolati che non si sopportano ma in qualche modo si distruggono e si supportano come famiglia comanda.

Intanto i fumi della bollitura del sugo di nonna viene costantemente mantenuto acceso come oracolo già da quattro anni. Non si può assaggiare, non si può mangiare, non deve finire mai, il sugo della nonna è perpetuo,
altrimenti, «Sacrilegio!».

Il padre comanda al figlio «interrati» e lui si sdraia a terra.

«L’occhi dell’amiur» 


non vedono.

La tiella della mamma ha i segreti della casa, vuole assolutamente che le venga restituita e intanto la mamma pensa di dare «la marmellata alle visciole a Don merda».

Perfetto il gioco di luci. Ogni personaggio, anche fuori dal quadrato d’attenzione è illuminato con una luce decisa. 

In questa nevrotica espulsione di emozioni, tutti sputano, a volte si sputano addosso. 

Attendono da tre giorni un signore e sua moglie per una cena, il menù viene ripetuto come un mantra da ogni componente della famiglia, ma se la cena salta ci sarà lo spuntino.
Questo signore è un funzionario che decide di farsi prete per non pagare le tasse, Agrusta dà una spettacolare presenza a questo personaggio che porta con sé il peso del futuro.

Quando i personaggi escono dal quadrato e poi rientrano lo fanno con movimenti mossi da una forza opposta, come da una calamita, spostano il corpo dentro come fosse tirato da un elastico.

«Maledetto libeccio!».
«I polmoni non esistono», 


così come non esistono i cambiamenti possibili, le speranze, il futuro.

Ma 

«tutto irà come debbe ire», 


tutto andrà come deve andare.

Tre loculi, i più importanti del cimitero, «la morte è dappertutto» dice il figlio e per tutto il tempo la morte è stata elemento costante senza soluzione.

Perfette le scene di Francesco Ghisu, il disegno luci di Luca Barbati, i costumi di Mimma Montorselli, i movimenti di scena di Alberto Bellandi
Una complessa macchina perfetta creata e gestita da Mattia e condotta ora dai bravi oltre ogni limite, Massimo, Carlo, Cristina e Giordano che, pur non conoscendoli personalmente, sento di chiamare per nome grazie alla grande operazione teatrale d’amicizia sincera.

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Aggiornato il

  03 marzo 2024