FLUTTUANO NELLA BELLEZZA I «PAGLIACCI ALL’USCITA da Leoncavallo a Pirandello» DI LATINI AL VASCELLO

Di Veronica Meddi

Al Teatro Vascello, in prima assoluta, «PAGLIACCI ALL’USCITA da Leoncavallo e Pirandello» di e con Roberto Latini, dal 29 settembre all’8 ottobre. Produzione La Fabbrica dell’Attore, Teatro Vascello, Compagnia Lombardi Tiezzi.

È questo uno spettacolo umido di lacrime ingoiate – perché il tradimento è la morte viscerale di un amore - o evaporate – perché, quando una passione non trova controllo conosce la strada per mutare finanche la sua stessa sostanza -, umido di puerili giochi con regole ben stabilite – ogni gioco, persino il più ingenuo, ha le sue regole – dove lo spettatore, seppur in modo apparentemente voyeuristico, si immerge imparando con naturale dolcezza la respirazione.

Un’intera dimensione esistenziale è abitata da presenze create per opere indipendenti: Pagliacci di Ruggero Leoncavallo, immerso nel Verismo di fine ‘800 nella trama spietata del delitto d’onore e d’amore, e All’uscita di Luigi Pirandello pensata come parabola metafisica, quasi filosofica.
Elena Bucci, Ilaria Drago, Savino Paparella, Marcello Sambati e Roberto Latini che ne cura anche la regia - riescono con alto spessore attoriale a far vivere quello che, altrimenti, sarebbe stato solo vissuto nell’astratto della fantasia.

70 minuti, questa è la durata dello spettacolo, edificati con cura estrema come piccolo tempio di grande bellezza. 

Allo spettacolo ci si può avvicinare trasversalmente con due distinti approcci: quello conoscitivo e intellettuale, e quello emotivo emozionale; fondamentale per questo tipo di spettacolo di ricerca, lasciare fuori la pigrizia, l’ignoranza o l’anaffettività.

Le musiche e il suono di Gianluca Misiti, le luci e la direzione tecnica di Max Mugnai, se questo fosse un caso giuridico, sarebbero condannati, per complicità in bellezza, a un fine pena mai. 

In un modo nuovo, un modo altro – perché ‘altro’ punta al futuro – pur nel pieno rispetto dei concetti di drammaturgia del testo, del suono, della scena, le parole originali sono state riscritte, declamate, musicate. 
È questa una sintesi, breve ma concisa, dell’unione di un’opera lirica del 1892 e un’opera mai pensata dall’autore per il teatro del 1922.   

In origine l’opera si intitolava Pagliaccio, per motivi che riguardano i tempi in cui fu creata divenne Pagliacci, e a giudicare dalla cronaca nera attuale, i Pagliacci sono drammaticamente in numero sempre crescente. Tutto è storicamente attuale.

«Si può? Si può?» dice il Prologo quasi a chiedere il permesso al pubblico in sala che, in qualche modo consapevole, sa che assisterà a qualcosa di forte come un pugno nello stomaco e al contempo dolce come una materna carezza. 
Amori, tradimenti, uccisioni, e lacrime che accumulate impediscono il camminare, attentano all’equilibrio, appesantiscono il corpo che indossa abiti per l’occasione, anche quelli del saluto estremo.
Leoncavallo mise in scena le antiche maschere della Commedia dell’Arte, volendo riprendere le vecchie usanze, ma il Prologo rassicura che «le lacrime che noi versiam son false!.. vedrete amar sì come s’amano gli esseri umani, vedrete dell’odio i tristi frutti. Del dolor gli spasmi, urli di rabbia, udrete, e risa ciniche! ...». 

In un turbinio di emozioni forti, è vero, qualche risata – come nella romantica battuta “non prima che io ti baci” accompagnata contemporaneamente da un movimento sconcio e dissacrante - è sfuggita dal controllo uscendo dal filo tirato deciso per donarsi, non temendo giudizi, e sicuro che avrebbe poi lavorato dentro come un pensiero che uccide sua maestà insensibilità.

Ammirevole la cura di ogni movimento scenico, nonostante ogni attore fosse con i piedi, e non solo, nell’acqua, ha mantenuto alto il controllo e l’equilibrio tipico degli acrobati senza rete di protezione. Per tutta la lunghezza del proscenio, infatti, si presenta una specie di tappetto rivestito da più di qualche centimetro d’acqua, su cui persino una camminata è messa a rischio. Ma non è certo questa giocoleria che ha reso interessante lo studio di ogni micromovimento, respiro, parola che ognuno dei cinque attori – tutti di altissimo livello -  ha vibrato in modo superiore. 
È stata piuttosto l’unità – come un unico blocco, mantenendo la necessità del singolo – che si è manifestata con tutta la potenza del rispetto.

«Sei forse tu un uomo? Tu sei pagliaccio. Metti la giubba e la faccia infarina» è il diktat che l’arte richiede al suo artigiano.

«L’amor ama gli effluvi», un amore che da sempre è follia.

La voce calda di Latini attraverso un’altra enfatica registrazione  “E’ l’amor mio più fasto, non parlerò, a costo della morte” affonda nell’intimo dello spettatore fino a portarlo a versare intime lacrime.
 
Detto questo, perfetta la battuta che chiude il primo quadro «La commedia è finita». La struttura drammaturgica è perfetta e sporcata da guizzi di genialità artistica.

Si apre in continuum il secondo quadro, nell’acqua l’uomo grasso con tanto di pinne ai piedi e il filosofo sguazzano, giocano, ragionano. Le azioni sono quelle meravigliose di un’infanzia in cui tutto era ancora possibile, le parole, invece, sono quelle di adulti cinici a cui l’amore ha fatto male. 

«Era il calore inutile del mio sangue» 


Il suono di ogni singola goccia d’acqua rimanda a scompagnati chicchi di una melagrana che il bimbo morto gusta per realizzare il suo semplice e ultimo desiderio prima di sparire.  Questo suono – come in tutti gli altri che aggiungono ancor più efficace potenza all’opera, già potente di suo - ricorda con delicata grazia la nascita di un amore, il suo silenzio di sospeso, invece, tutte le speranze che vanno a finire in un mare di fallimenti. 

«Il teatro e la vita non sono la stessa cosa» 

tra finzione e realtà l’amore infranto uccide.



Le tre vasche rialzate su un secondo livello si palesano poi bare in cui i corpi si immergono. Ogni corpo con i propri singoli movimenti, ogni corpo nella piena grazia del fluido, e tutti e tre si fanno armonia. 

È questo uno spettacolo teatrale, sì, ma è al contempo un susseguirsi di meravigliose istallazioni che personalmente mi hanno riportata alle opere di Marina Abramović.

È questo uno spettacolo viscerale e dalle forti emozioni, uno spettacolo che con pochi oggetti scenici – anche se la struttura scenografica ha le sue complessità – riesce a immergere lo spettatore non solo nelle storie/storia di Leoncavallo e Pirandello ma anche nel proprio intimo fatto da ricordi, esperienze, umori.

Latini in questa sua meravigliosa dichiarazione d’indipendenza tra Verismo e teatro borghese crea quel ponte necessario per andare oltre.
E anche se «Paura/Dio/Solo/Resterò/Sempre/Qua/seguitando a ragionare» la sua voce fuori campo chiude con un, anche se l’amore è infranto, «Ridi, Pagliaccio!».

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Aggiornato il

  01 ottobre 2023