«Miseria e nobiltà»: Melchionna spoglia i ruoli sul palco dell’Eliseo

Di Veronica Meddi

Nello spazio corrono due linee sghembe, una vicina all'altra, insomma, non troppo distanti né troppo vicine, e ognuna segue imperterrita la sua meta, che è il suo pensiero, il suo progetto. Entrambe consapevoli sanno che non s’incontreranno mai, e perché dovrebbero. C’è solo un istante in cui una, immagino, fa ombra sull'altra, e in questo modo distratto e matematico, entrano in contatto nell'intangibilità e fanno l’amore. Due sono le vivacità presenti in «Miseria e nobiltà» di Eduardo Scarpetta in scena al Teatro Eliseo fino al 20 gennaio con la regia di Luciano Melchionna. I tre atti di Scarpetta qui si fanno in due. C’è, nelle scene di Roberto Crea, il grigio della miseria nel primo e i colori eccentrici e sfavillanti nel secondo.  E proprio come i merli di un castello l’uno garantisce l’esistenza dell’altro. La vita qui si può sintetizzare in uno struffolo di coscienza, che non è di certo ‘dolce’, piuttosto, «zuccherata». La commedia ha come protagonista Felice Sciosciammocca, uno straordinario Lello Arena, e la trama gira attorno all'amore del giovane nobile Eugenio, un trasfigurato, bellissimo e pieno di tic, Raffaele Ausiello, per Gemma, Marika De Chiara, figlia di Gaetano, Tonino Taiuti, un cuoco arricchito e imparruccato. E proprio perché è ‘un vorrei ma non posso’ la parrucca ad ogni movimento si sistema in modo scombinato. La bravura di Taiuti in scena governa anche un buffo disordine voluto. Il ragazzo è però ostacolato dal padre, il Marchese Ottavio Favetti, Fabio Rossi, che è contro il matrimonio del figlio per via del fatto che Gemma è la figlia di un cuoco. Insomma la ragazza è bella, attraente, ma non ha il giusto pedigree. Eugenio allora si rivolge per una richiesta d’aiuto allo scrivano Felice che di sentimenti ne sa qualcosa. Anche di fame. Felice e Pasquale, Andrea de Goyzueta, un altro spiantato, assieme alle rispettive famiglie, si introdurranno a casa del cuoco fingendosi i parenti nobili di Eugenio. La situazione si ingarbuglia poiché anche il vero Marchese Favetti è innamorato della ragazza, al punto di frequentarne la casa sotto le mentite spoglie di Don Bebè. Il figlio, scopertolo e minacciatolo di rivelare la verità, lo costringerà a dare il suo consenso per le nozze. E come in ogni commedia che si rispetti vince l’amore che ha sempre fame. D'altronde come dice Felice Sciosciammocca «La fatica e la fame mia sono legali?». No, decisamente no. E a questa domanda che diverte e scatena l’amara riflessione si aggiunge un altro tassello importante gridato con dolore da Peppiniello, suo figlio, «I bambini non dovrebbero mai impugnare gli strumenti di lavoro. Ma solo matite colorate». Qui, Veronica D’Elia, che prima dell’inizio della commedia s’aggirava già in costume tra il pubblico chiedendo un lavoro, è stata vera. La domanda che continua a martellarmi è una: di chi è la colpa? Di chi sporca o di chi non pulisce? La parola magica che aggiunge potere a tutto è «fare» dice Felice che incalza con un esempio: «Fare l’amore’ ti dà la sensazione dei fuochi d’artificio», e continua «I giovani d’oggi mica parlano d’amore, lo fanno e basta». Il pezzente e morto di fame ha il dono del sapere.
Ecco quell'ombra che bacia le due rette sghembe di cui parlavo all'inizio, Scarpetta nel 1887 e Melchionna nel 2019, uniscono le loro sensibilità per combattere e denunciare la misera e inutile albagia, oggi. A fine primo atto cade la pasta sui poveri. Increduli rimangono immobili pensando forse a una specie di miraggio o a un veleno, Melchionna sceglie di far cadere la manna dal cielo, e gli affamati non credono ai loro occhi. Bravissimi tutti gli attori a creare un filo sospeso tra ciò che è un desiderio e la paura di un desiderio realizzato. Al secondo getto di pastasciutta scondita, ma tanto anche Pinocchio mangiò poi le bucce della pera, si guardano, si annusano come poveri ratti per avvicinarsi alla preda. Hanno fame e sono determinati a saziarsi, corpo e anima, sia chiaro.
Ma «La vita può stare sia qua che di là della tenda rossa» e il secondo atto si apre con uno strappo alla povertà. Bello! L’interno della casa ricca è bianco, illuminato da un’apparenza ingombrante. Ecco che ogni finto nobile sale dalle botole e si manifesta in modo eccessivo, qui i costumi Milla giocano la loro parte. Circensi come fenomeni da baraccone che non vogliono e non possono svelare la verità, insomma una brutta caricatura colorata di esistenze socialmente grigie.  «È facile travestirsi da nobili quando tutti si travestono da nobili». Quando facciamo finta «Siamo tutti topi!», il messaggio è chiaro, giù le maschere. E anche in questo round gli attori sono tutti bravissimi, ce l’hanno nel sangue la fame dell’arte.  Tutti. Costretti prima in meccanismi claustrofobici si trovano a muoversi liberi nel benessere soleggiato. Simpatico il gioco del bacio a ventosa tra i due innamorati Eugenio e Gemma. Una specie di risucchio tra poli opposti che si attraggono alla faccia di tutto ciò che gli si muove intorno. Deliziosa nel suo costume clownesco e capelli arancioni la romana, qui napoletanissima, Giorgia Trasselli nel ruolo di Concetta. La Trasselli è la regina del primo atto.
Spietata Maria Bolignano nel ruolo di Luisella, simpatico l’effetto del costume da strega cattiva e quel vaso in testa che perde sassi e terra. Sembra rubato a qualcuno in un probabile condominio. Come un marito, per caso? L’unica stonatura, e lo dico a malincuore perché la D’Elia è davvero brava, lo ha dimostrato nel primo atto, è la battuta «Vincenzo m'è padre a me». Non è sufficiente qui le phisique du role che ricorda e si modifica per essere un bambino, credo che un vero scugnizzo, anche se è vero che i bambini non devono lavorare, avrebbe fatto venire giù il teatro per tenerezza.  Maria Bolignano, Tonino Taiuti, Giorgia Trasselli, Raffaele Ausiello, Veronica D’Elia, Marika De Chiara, Andrea de Goyzueta, Alfonso Dolgetta, Sara Esposito, Carla Ferraro, Serena Pisa, Fabio Rossi, Fabrizio Vona, tutti capeggiati dal grande Lello Arena, e con la sensibilità importante e rivoluzionaria del metteur en scène Luciano Melchionna, hanno portato in scena la miseria e la nobiltà che da sempre esiste. Con un colpo d’arte gli attori a chiusura sipario si svestono, liberandosi dal ruolo scritto per loro ed uscire dalla parola morta perché finita, e vivere.  
È questo «Miseria e nobiltà» uno spettacolo da vedere, gustare, metabolizzare e applaudire.



 

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Aggiornato il

  05 gennaio 2019