ARVIGO, L’«ELENA» IN OGNI PARTE DEL MONDO
Di Veronica Meddi
Elena Arvigo ha portato in scena ELENA di Ghiannis Ritsos, traduzione di Nicola Crocetti, dal 30 gennaio al 2 febbraio 2025 al Teatro Torlonia. Una produzione Teatro OUF Off con Associazione Santa Rita & Jack teatro. Con Elena Arvigo, sua anche la regia, e Monica Santoro.
Le scene e i costumi sono di Elena Arvigo in collaborazione con Maria Alessandra Giuri, ELENA non è una solo una donna qualsiasi che abita tra le sue mura domestiche – sarebbe questa una lettura superficiale -, ELENA è la donna abbigliata sciatta ma regale, e le scene altro non sono che la manifestazione di stati d’animo che invadono la sua mente e la sua anima.
Una poltrona, lampade, tavolini, separé che creano anche lo spazio intimo di un bagno, un semplice specchio con lavabo – perché un po’ d’acqua in faccia serve a riattivare l’attenzione -, e terra, tanta terra sul pavimento che è la manifestazione di un crollo che non può essere spazzato via – a un certo punto della vita tutto crolla -.
Perfetto il disegno Luci di Luigi Chiaromonte ed Elena Arvigo che illumina e offusca i pensieri di una donna distrutta che combatte nel suo intimo racconto misto di mitologia e attualità.
ELENA è un monologo contenuto nel libro “Quarta dimensione”, ispirato a personaggi importanti e minori della mitologia greca. Interessante sapere che è proprio attraverso la metafora, che Ritsos denunciò il regime dei colonnelli in Grecia tra il 1967 e il 1974, e riuscì a eludere la censura.
“Quarta dimensione” è un testo sulla guerra e sulla solitudine. È un anfratto che vibra a un passo dalla morte, scritto dall’autore durante la detenzione nel campo di concentramento di Karlovasi, sull’isola di Samo.
Dal poemetto, ispirato alla mitica regina di Sparta, Elena Arvigo trae un coagulo di versi centellinati e sofferti.
Se il suono del vento – che tutto porta e tutto deporta – aleggia all’interno del teatro, per conseguenza logica sullo spazio scenico un foulard muove il suo essere presente a ritmo di dati reali e delle sue possibilità.
Una donna vestita di nero, Monica Santoro, accompagna la sua camminata con un bastone e poi nello spazio della penombra dove abitano le idee, i ricordi, le speranze, con un’esecuzione perfetta di Casta Diva, il cantabile della cavatina della protagonista nella Norma di Vincenzo Bellini.
La sua presenza in scena è necessaria e agisce velatamente con equilibri ben cadenzati che accompagnano il pathos dell’opera.
C’è un’altra donna in scena, lei è ELENA che si alza dalla poltrona e va a fare la pipì, poi s’accende una sigaretta, tossisce e beve acqua da un bicchiere di vetro. Sembra una danza dal sapore antico sacro della vita.
L’azione introduce la parola, il fiume di parole di quello che conferma essere un monologo che respira e sanguina i dolori della donna e tutti i dolori delle donne.
«Sì, sono io. Ho quasi scordato le parole, non servono, non viene nessuno»
Il concetto di solitudine – capitata, cercata o voluta – viene concretizzata con un livello altissimo di recitazione di cui l’Arvigo è padrona. Il dramma si fa poesia e la poesia non abbisogna dell’intendere ma del divino sentire.
«Ma la casa resiste… esisto anche io»
Parla della sua pietra nera che porta all’indice, di bollicine che s’innalzano e poi scoppiano. Nella sua camera, nel suo letto c’è l’odore di boccette di profumo.
Le passioni sono inaridite, la verità ha preso la sua strada e le silenziose cose hanno perso il loro senso, così come le parole.
«Dimentico anche i nomi più cari»
«Le mani non riescono nemmeno a trattenere la coperta»
Il foulard appoggiato sulla lampada smette di aleggiare.
Qui, in questo sospeso esistere, tutto è azione, è grido silente che implode in lacrime di dolore.
L’interpretazione dell’Arvigo è ipnotica, affascinante, vicina al vero.
«È cambiato il vento in questa casa. Forse perché non ci sono i morti»
I morti, l’ipertrofia dell’immutabile si aggirano nella casa.
D’altronde, ELENA confessa che da quando è morto il marito non parla più con nessuno, ed è tanto tempo, ma dopo l’atto del cordoglio, tutti se ne allontanano, e in questa azione non c’è data storica, e forse nell’attesa accelerata che morisse anche lei, «Avevano tutti fretta di andarsene».
«Leggono male le mie poesie»
«Come se fossi a teatro… un giorno prima e poi morire», raccontano gli avvenimenti della sua vita mentre lei dormicchia.
È una donna anziana che pone a sé stessa e agli altri delle domande a cui non è facile dare risposta. Nulla di tutto quello che vive ELENA è facile.
«Quante cose inutili abbiamo ammassato. Quanto ancora dobbiamo invecchiare per diventare giusti»
C’è il caos che occupa irriverente gli spazi del luogo deputato al dolore, la sua casa, e c’è un caos che occupa la mente di quella che è una donna confusa. ELENA è abitata da una guerra che non si circoscrive a confini di alcun genere e si estende in pluralità che continuano a devastare anche l’oggi.
E i ricordi di questa contraffatta figura sono diventati ormai impersonali trame, ma la bellezza e l’immortalità salgono sempre più in alto raggiungendo dimensioni ignote.
ELENA e la sua silente compagna è in un abbraccio che stabiliscono l’essere un essere unico, ed ELENA sfila via la vestaglia dai colori chiari rivelando così il suo abito intimo nero.
ELENA muore così, all’improvviso, e con lei scompare ogni cosa.
L’interpretazione dell’Arvigo aveva così tanto attratto e affascinato il pubblico che ho avuto la sensazione che il pubblico non volesse battere le mani per la fine dello spettacolo. A tanta bellezza non si accetta la fine. Credo che ognuno dei presenti, come me, egoisticamente, avrebbe voluto una durata maggiore, ma da critica confermo che la giusta durata sia stata quella scelta dall’Arvigo. D’altronde chi meglio di lei ha saputo sporcarsi di terra allontanando la polvere.
Chi meglio di lei - artista antica e moderna - poteva mostrare il crollo delle sperante e l’eterno resistere delle donne.
«Lo so, ciascuno cammina solo verso l'amore,
solo verso la gloria e la morte.
Lo so. L'ho provato. Non giova a niente.
Lasciami venire con te.»
(Ghiannis Ritsos, La sonata al chiaro di luna [1956], in Quarta dimensione, vv. 33-36)
E dopo applausi scroscianti e battere di piedi della durata di qualche minuto, l’Arvigo energica ed emaciata dall’immedesimazione toccante che tanto le è venuta naturale fa la sua dedica:
«… ai paesi oppressi e al popolo di Palestina»