Fausto Russo Alesi e Imma Villa straordinari per la «Regina madre»

Di Veronica Meddi

Siamo il frutto di esperienze che conosciamo per sentito dire. Vissute mai. Ma la conformazione del DNA è a doppia elica: una gira sulla vita dei genitori, l’altra su quella dei figli. La mimesi fantastica farà il resto. Platone si era già espresso in merito alla produzione di false immagini, che poi sono gli idoli che innalziamo, per necessità. Le due eliche, per gioco naturale, partecipano alla vita. Madre, Padre … e così sia per la stirpe. Come in un tableau vivant di arte sacra, tra luci soffuse, madre e figlio si manifestano come un granitico tutt'uno. Al Teatro Piccolo Eliseo dal 7 al 17 marzo 2019 Fausto Russo Alesi e Imma Villa in scena per «Regina madre» di Manlio Santanelli con la regia di Carlo Cerciello. Il luogo deputato è un enorme letto bianco dove si muovono i due protagonisti, la Regina madre e Alfredo, suo figlio. Tutto è bianco, colore che nel pensiero orientale è scelto per la purezza e per il lutto. Le note di un carillon, create ad arte da Paolo Coletta, aggiungono infiniti spazi ai ricordi modificati dalla fantasia ingenua, dai rancorosi background, da tutto ciò che un tempo si pensava possibile e che non è stato. Regina madre è ormai anziana, vive sola perché i figli se ne sono andati e il marito l’ha resa vedova. Non vuole badanti. Piccola, vestita di nero, esiste come figura di rancore, comando prepotente, inconsapevole distruzione. Porta con sé i misteri della tenerezza della senilità e il livore di una suocera velenosa. Grottesca e drammatica, nella tragedia, fa ridere. Chi dà corpo e anima a questo personaggio che, già ci sembra di conoscere un po’, è Imma Villa, attrice fine e raffinata, sanguigna, dunque, carnale. È vulcano che scaglia verso il pubblico, con estrema precisione e maestria, tutte le parole di questa esistenza che con il parto si è nobilitata.  È lei la Regina, appunto. Giocando, Imma Villa, crea altre identità e governa i tempi. «Oggi 2 aprile comincio a prendere nota di ogni cosa» dice Alfredo, interpretato dal bravissimo Fausto Russo Alesi che per la prima parte dell’opera, come un figlio nella prima parte della vita, subisce i colpi a lui inferti dalla madre, il suo General Cadorna, appunto. L’attore qui deve incassare, trattenere, cercare le pause, controllare ogni reazione senza svelare il suo ‘poi’. Nei rari e inevitabili sprazzi d’isteria cova dentro un veleno pericoloso che, come elemento di semina, esploderà. La verità scenica di Fausto ipnotizza e sconvolge l’intero pubblico in sala. Il suo personaggio ha cinquanta anni, è un giornalista senza onori e glorie, un matrimonio fallito con Erminia, ha una sorella che si chiama Lisa. L’intera sua vita costellata da insuccessi sembra cadergli addosso e schiacciarlo nella depressione. Spera e teme la morte della madre «I globuli bianchi mangiano i globuli rossi», che forse è già morta da tempo. Vivo è invece l’odio nei confronti di un padre che Regina raccontava con aneddoti fantastici. Come il loro primo incontro d’amore in mare, quando lui, salvandola, la «prese per la vita». Era un grande uomo, che parlava sette lingue, il padre. E qui il figlio reagisce con rabbia profonda «come il Papa, come il Papa, come il Papa …». Per Regina Giannelli, il marito sì che era un genio. Altro che il figlio. Un confronto subìto con tutte le regole di un gioco cattivo. È vecchia, prende tante medicine, e ha sempre sete, vive in un’arsura che la destabilizza, e per questo sotto al letto, spazio di infinite esistenze immaginarie, sono sistemati tanti bicchieri. In ogni angolo di casa ce n’è uno, più d’uno, la necessità potrebbe essere più veloce dei movimenti del suo vecchio corpo. Regina si osserva attentamente, odia la sua «pelle rasposa di poco prezzo».  Un giorno, uno qualunque, dice «si è scetata tutta incartata». Alfredo prende appunti per il suo romanzo che gli renderà il successo tanto agognato. Ma tra gli appunti sono segnate tutte le fasi che anticipano la morte della madre. «Non andare con le donne» era uno dei diktat imposti dal potere materno. E per Alfredo anche un solo problema è «troppo mo’». Per uno scrittore sulle sponde opposte di un fiume c’è da una parte «il pensiero» e dall'altra «un foglio bianco da riempire», come la vita. Il climax sale vorticosamente tanto da trasfigurare Alfredo in Regina madre e Regina madre in sua sorella Lisa. Anche Lisa denuncia i suoi problemi «Sono una donna cava, mamma». Fausto e Imma con gesti studiati meticolosamente e agiti con perfezione hanno dato vita a una metamorfosi che ha sorpreso l’intero pubblico creando uno stordimento inebriante. Gli squilibri mentali di Alfredo si fanno sempre più violenti, ed ecco che sotto gli occhi del pubblico lo spazio scenico di un’esistenza amara si fa letto di ospedale. Sono sbarre metalliche quelle che si conficcano nell'anima malconcia di Alfredo. E poi pasticche, e poi punture ... tutto, tutto per un po’ di pace. Racconta Alfredo, in pieno delirio, di aver mangiato la moglie, certo, solo dopo aver svuotato la dispensa, dopo molti amplessi, e aver mangiato tutti i fiori del suo giardino innevato. C’è poesia nel testo di Santanelli, c’è poesia pura nell'interpretazione di Fausto che mi ha fatto sentire in bocca il sapore di colorati gerani. Una bugia attenta, minuziosa, fatta di parole messe in ordine per rendere la storia credibile. Come credibile e tenera è la sua regressione che lo riporta a quando da bambino muoveva i primi passi attaccato alle sbarre del lettino, dove tutto sembrava gigante. Nulla in questo spettacolo è lasciato al caso. Ecco anche perché la presenza di quei due enormi Pinocchi ai lati del palco. Le scene di Roberto Crea accompagnano in questo rito di dolore ogni singola emozione, provata prima, capita dopo. I costumi di Daniela Ciancio e il disegno luci di Cesare Accetta contribuiscono alla realizzazione di questo piccolo capolavoro ad arte, dal finale travolgente, che consiglio di non perdere.





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Aggiornato il

  17 marzo 2019