Il grido de 'La Gioia' di Pippo Delbono commuove il Teatro Argentina
Di Veronica Meddi
Lui, Pippo Delbono, non accetta i complimenti. Io, invece, non accetto imposizioni. Una conoscenza, la mia con lui, nata tra i banchi dell’università quando un giorno, la professoressa di Drammaturgia, ce lo presentò a lezione. Come ogni grande innamoramento, l’impatto iniziale fu di rabbia. Pensai che non era giusto usare le persone ‘speciali’ per ottenere qualcosa a proprio vantaggio. Pensai di lui che era un opportunista, un viziato annoiato, un furbo scorretto. Poi lo vidi a teatro, (certo dovevo superare un esame e quella era la strada giusta); galeotte furono tutte quelle emozioni contrastanti che ancora oggi, non so perché, si fanno capire bene.
Il titolo di questa sua opera in scena al Teatro Argentina dal 5 al 10 marzo è «La gioia», un sentimento travestito dal mistero, un sentimento ambito per istinto da tutti, non credo a chi dice il contrario, un sentimento che ti può vagire tra le braccia e attaccartisi al seno solo dopo un atroce travaglio. Dolly Albertin, Gianluca Ballarè, Margherita Clemente, Ilaria Distante, Simone Goggiano, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Gianni Parenti, Pepe Robledo, Zakria Safi, Grazia Spinella, sono gli artisti che insieme a Pippo e Bobò tessono in modo magistrale questa rete che prima ti strangola sviscerandoti lutti, malattie e morti, e che poi ti libera alla gioia pura per la quale, altrimenti, non saresti stato pronto. È un cast onirico, perfezionista al punto tale che tutto sembra lasciato al caso, come le foglie secche, i fiori, gli stracci, in questa storia di “un uomo che non sentiva più niente, al di fuori del suo dolore. E si vergognava, del suo dolore. Era il dolore di qualcuno che aveva tutto”. «Questo spettacolo rinasce con la morte di Bobò».
Sulle note di ‘Don't worry be happy’ l’ex barbone Nelson Lariccia si fa giardiniere che annaffia con amore, e che con amore fa di un fiore un intero giardino colorato. Sono fiori di festa, non certo fiori maleodoranti per funeree esperienze. Ci sono buchi neri nelle nostre vite, creati da cari che se ne sono andati, da medicine che mentre risolvono un problema, ne creano altri e altri ancora. E allora Ilaria Distante, bella ed elegante nel suo tailleur, vuole danzare, perché il suo folle amore l’ha lasciata, è morto in un incidente il pazzo chitarrista, e a lei non rimane che mettere in essere movenze tanghere che altrimenti rimarrebbero bloccate dentro come macigni di amarezza.
«Conoscete Enrico IV? Ma certo che conoscete Enrico IV» Pippo Delbono si prende gioco del pubblico in sala che è seduto comodamente oltre la quarta parete del dolore e che sta trascorrendo un sabato pomeriggio in uno dei teatri più belli di Roma. Il regista ha un messaggio da portare e la preparazione erudita non è sufficiente. «Sono guarito perché so che faccio il pazzo», dice, e invece gli altri che pazzi lo sono davvero ignorano la loro follia. Strani personaggi entrano in scena e come zombi scendono in platea con tutte le illusioni di chi è morto dentro e non lo sa. Con modi discreti e poetici spaventano, sì, come le illusioni. I dolori però, tranquillizzo tutti, non fanno proprio nulla, esistono, ed è questo che spiazza. Ecco una gabbia di grate confinare Pippo, manifestazione di un angolo in cui per troppi mali vissuti, ci si rintana. Con voce sgraziata, perché sia chiaro, il dolore non ha certo dolci musicalità, poesia sì ma intonazione no, un attore recita i versi di ‘Je so' pazzo’ di Pino Daniele. Per chi usa la logica è inevitabile trovare costrizioni, ma per i pazzi, «per loro, può essere tutto». Sarò pazza anch'io, ma qualcosa accade. L’avidità, la collera, la stupidità, sono traghettatori dell'Ade che ci trasportano nel buio. Poi, dall'altra parte, però, c’è la possibilità della luce. «L’inverno si trasforma in primavera», non può fare altrimenti. Nulla è per sempre, anche quando ogni speranza ci ha abbandonati.
In abito azzurro, con tanto di schiena scoperta e microfono da star fa il suo ingresso in scena Gianluca Ballarè che interpreta in play back la ‘Maledetta primavera’ della Goggi. Gioca Gianluca e riempie il palco e la platea tutta di un’energia da favola. Scappa un sorriso e tanta tenerezza che spiazza. Pepe Robledo distribuisce, sistemandole, una a una, barchette di carta su tutto lo spazio scenico; c’è una panchina vuota, vuota solo per chi guarda con gli occhi, ma chi in questo spettacolo abbandona i pensieri e abbraccia le sensazioni, sa perfettamente che lì seduto c’è ancora Bobò. La sua dolce voce da sordo muto, dunque stridula, acuta, fanciullesca, echeggia in scena, e chi sa la storia di questa compagnia teatrale potrà provare il senso dell’eterno.
Pippo ci tiene a chiarire una cosa «Bobò parlava, con i segni, senza logica» eppure, posso testimoniarlo, sapeva farsi capire bene. «Resta con me…resta con me…resta con me…» gli grida Delbono che lo liberò dal manicomio di Aversa facendolo viaggiare per tutto il mondo come una star visibile a tutti. E dopo, il silenzio. Per qualche istante, via musica, via parole, via pensieri, solo silenzio. Non siamo proprio più abituati al silenzio, per questo i pochi attimi sono sta-ti pesanti come il nostro doveroso imbarazzo. «Mio Dio fa che non abbia mai fine la preghiera di un uomo». E ancora, «mare nostro che non sei nei cieli» le parole di Erri De Luca accorrono al senso di una poesia malata, che poesia lo è davvero. Pepe che, in questo spettacolo è figura di azioni senza parole, svuota sul palco sacchi neri d’immondizia che contengono abiti impolverati, colorati. Segue l’ingresso di un clown bianco, Gianluca, che si fa lui stesso la Venere degli stracci di Pistoletto, stracci che se poi quello è il mare, sono cadaveri di uomini che nella migrazione hanno cercato una speranza. Amava il circo da bambino, Pippo, e del sapore del circo c’è un’evocazione potente. Come un padre amorevole tranquillizza il suo amico dal cromosoma in più, baciato dal divino «Gianluca, il dolore passerà, la tristezza passerà, la paura passerà» poi arriverà la gioia che non va capita, va provata. La stessa che poi, passerà. È un flusso continuo la danza delle emozioni che in quanto tali non accettano schemi, logica, misure. Il Teatro Argentina si riempie della voce di Totò nella sua Preghiera del clown. Un paio di risate, tanta malinconia. Bobò non aveva il senso del tempo e allora, la compagnia Delbono, ogni tanto gli organizzava una festa di compleanno a sorpresa. Lui amava essere festeggiato, questa era la cosa che contava, non certo la verità scandita da un calendario. Di quest’ultima, Bobò, giustamente se ne fregava. E Pippo, non perde occasione per ricordarcelo «Bobò portava con se il senso, segreto e eterno, del teatro». Su una panchina infiorata c’è Gianluca clown con una torta di compleanno in mano, con tanto di candelina accesa, il palco viene cosparso di foglie secche, calano dall'alto fili di fiori creati da Delbono assieme a Thierry Boutemy, il fleuriste normanno, e altri fiori vengono distribuiti da Pepe sul palcoscenico. Qui Pippo sulla musica ‘Follia’ di Nicola Toscano con Les Anarchistes fa il suo omaggio a Nicola e a Bobò che sono in un’altra dimensione. «L’uomo avrà la fede», la nostra pallida ragione non sarà più sufficiente. “Amore Carne” (film di Pippo Delbono) c’è dato capire, ma «qualunque fiore tu sia, tu sboccerai». La voce di Delbono si accavalla qui a quella di Bobò il climax d’amore è raggiunto.
E non deve sembrare strano che dentro tutto questo dolore, sia fiorita, nel rito, la gioia.