«PFF - Piano Forte Forte » in un suono la trisonata della vita

Di Veronica Meddi

Al Teatro Cometa Off la Compagnia Cidda|Infuso presenta in prima nazionale dal 15 al 20 gennaio «PFF - Piano Forte Forte Trisonata per corpo femminile e pianoforte» scritto e diretto da Valentino Infuso, interpretato e musicato da Valentina Cidda. Luci di Giovanni Monzitta. Anche se ogni spettacolo, ognuno a suo modo, chi più chi meno, ha la sua chiave alchemica non voglio qui parlare di alchimia ma di teatro. Questo è, teatro, una macchina che si muove con regole precise, anche quando le stesse regole vengono sovvertite, comunque ci sono. Il caso di PFF mi ha lasciato un’idea grande come un punto di domanda. Valentina Cidda è perfetta in ogni movimento, parola, respiro, sbuffo, appunto. Felinamente veloce nei suoi movimenti, che il suo corpo perfetto esegue come un’acrobata circense, precisa come un metronomo, bella. Diventa un tutt'uno con il suo pianoforte, ci fa l’amore e la guerra. Impeccabili le sue esecuzioni. La Cidda è un flusso di sangue e anima continuo, fino allo sfinimento, la sua performance è un’azione catartica.  Emotive le luci di Giovanni Monzitta che hanno danzato in sinc con tutte le emozioni che sono fluttuate nella storia. Ottimo lavoro. E poi c’è il testo, la drammaturgia troppo generosa di Valentino Infuso. E qui l’Infuso mi obbliga a una scelta. Mi divide in due. Chiarisco sin da subito che ogni parola che userò sarà con rispetto umano, è il critico che tecnicamente non si trova d’accordo. Lo spettacolo è suddiviso in tre parti, tre sonate appunto. Ho trovato la prima sonata perfetta. Il feto nella sua classica posizione sulla/nella pancia del pianoforte/madre è ricca di testo e sotto testi. Delizioso il momento di quando l’essenza indossa un corpo con cui farà conoscenza. I piedi del piano forte sono le cosce di una madre gravida che dà la vita. Poi, i piedini dell’esserino nuovo si fanno più partecipativi e il processo immaginativo sensoriale, anche. La vanità della madre sui progressi della figlia è chiarita dall’Infuso sin da subito. Così come il destabilizzante nella vita di una donna «Papà non c’è». E se mamma è superficiale, vanesia, e papà assente, ecco che l’orco zio sbrana i sogni e le favole della nipotina. Lei, tragicamente responsabilizzata, gli promette «Non lo dico a nessuno», è un segreto. In poche battute scritte e recitate in modo impeccabile, tutto funziona. Il dramma ha la sua giusta e meritata sintesi e proprio nell'essenza arriva un pugno nello stomaco. Il testo di Valentino e la realizzazione artistica di Valentina qui fanno un passo a due ‘vero’. Il pianoforte segna i luoghi deputati dove avvengono tragedie, sbagli, rancori. I tasti sono bianchi e neri, d'altronde. Valentina bofonchia un amaro amarcord, c’è in questa performance l’ombra di un circo rifiutato, un trapezista precipitato, l’ultimo sospiro di un elefante anziano, un nano, una donna baffuta e l’uomo proiettile. Seconda sonata. Cambio di veste, da bianca a nera, e il piedino viene messo a signorina. Simpatico il gioco dei piedi che calano dalla finestra per andare all'appuntamento. Con tacchi o senza, un sogno precipita. La signorina s’infatua e col suo principe fa l’amore. Ma l’azzurro di lui è macchiato dai pregiudizi e dalla violenza; non più vergine per stupro subito, la ragazza non è più considerata essere umano. Il climax di questa seconda sonata sale vorticosamente nell'atto dell’amplesso. Sensuale, stravolta dall'orgasmo d’amore. E poi schiaffi. La gente non tollera il Paradiso in vita. È vero. Mi trovo d’accordo con l’Infuso.  A livello drammaturgico, tra le tante, troppe forse parole, spicca per guizzo di genialità creativa l’«eccetera….eccetera» recitato da Valentina.  Quell'«eccetera….eccetera» è gelido, molto più degli schiaffi dell’omuncolo di turno, è il sottolineare la routine, l’abitudine, la noia. Spiazzante. Terza sonata, la signorina diventa famosa, fa i suoi concerti, in abiti aggressivi, perché la vita lo è stata con lei, e diventa Mina Vlad. Un trucco esagerato tenta di nascondere quel dito in gola che l’ha fatta vomitare molte volte e in più occasioni. Lo abbiamo visto e vissuto insieme a lei. Il «Ma dov’eri tu, mamma» taglia l’aria. Funziona.  Mina Vlad canta che la vita è sangue, morte, e che la mamma inutile le ha insegnato a preparare il ragù. La bravura di Valentina al piano si è già chiarita abbondantemente. Il concerto non dovrebbe esserci. Poi, per ogni donna, o uomo, arriva il momento in cui bisogna avere coraggio. «Quando avrei voluto dire…» l’attrice qui sussurra in modo silenzioso e intimo un monologo che non è dato sentire, comunque è chiaro, avrebbe voluto dire «No». Abito rosso. Questa terza sonata che doveva volare per chiudere il cerchio ristagna. S’impantana tra finti finali che vanno ad ammazzare il vero finale. E questo è un peccato. Il pubblico non ha bisogno di estenuanti ripetizioni, nelle prime due sonate tutto era utile e chiarificatore. Avrei cercato e spero che lo farà Valentino, per dare tutta la bellezza a quest’opera che lo merita, una sintesi alla Peter Brook

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Aggiornato il

  17 gennaio 2019